Testimonianza di Carlo

Raccontando da gennaio ad aprile 2003 23 marzo 1992

Suona la sveglia alle 7.15 come ogni lunedì; è il 23 marzo 1992.

Mi infilo le ciabatte, mi alzo ma ho una sensazione di vuoto nella testa. Sto in piedi, fermo. Mia moglie nota che sono pallidissimo e mi chiede cos’ho. Mi accorgo che fatico a parlare, mi sento impacciato. Arriviamo al Pronto Soccorso. Lì incomincio a sentire un formicolio alla mano destra. Ricordo il tragitto in carrozzella per giungere nel reparto di neurologia; in ascensore mi sento sempre più confuso.

Per circa quattro giorni resto così, confuso e assopito, poi mi rendo conto che metà del mio corpo, la parte destra, non si muove: sono dispe­rato. Faccio fatica a vedere, la luce mi dà molto fastidio, sento parlare ma non capisco ciò che mi dicono. Qualsiasi rumore mi infastidisce. Non riesco ad articolare neanche un suono. Ricevo la visita di un amico e penso: “potrò ritornare a pescare con lui?”. Una sensazione terribile si pre­senta quando ascolto la conversazione tra mia moglie e il mio dirigente, venuto appositamente da Milano a trovarmi, nella quale dicono che ormai il mio futuro lavorativo è gravemente compromesso.

Vengo trasferito in un altro ospedale per la riabilitazione motoria, sono in carrozzella. Passa circa una settimana nella quale ogni giorno vengo portato nella sala pittura dove devo arrangiarmi a dipingere con la mano sinistra e devo comporre puzzle per stimolare la mia intelligenza (com­promessa?). A parer loro era sicuramente compromessa, visto ciò che mi facevano fare… Con mia immensa felicità una mattina mi accorgo di riuscire finalmente a reggermi in piedi da solo! Così inizio ad andare a bere il caffè al bar dell’ospedale con Luciana, mia moglie. Mi è ritornato il desiderio di leggere il giornale, voglio riprendere le mie consuetudini. Mi rendo conto che devo leggere molto lentamente per poter capire ciò che è scritto.

Il 9 maggio vengo dimesso in attesa di un appuntamento per iniziare la riabilitazione del linguaggio; mi reco a fare ginnastica quasi ogni gior­no ma non ricevo nessuna telefonata per la parola. Mi rivolgo ad un altro servizio di logopedia e inizio a lavorare sperando di poter di nuovo comu­nicare. La mia professione è terminata, ho concluso il mio rapporto di lavoro: sono informatore farmaceutico. Per me il linguaggio è tutto! Come si prospetta il mio futuro? Non parlo, non riesco a scrivere, leggo con molta lentezza, la mano destra è un po’ impedita, per fortuna ho ripreso a camminare, sono autonomo. Da una vita movimentata, al con­tatto con centinaia di persone, mi ritrovo a vivere la maggior parte della giornata in casa. I miei due figli frequentano l’università. Se ora sono qui a raccontare è merito loro. Ho desiderato di morire, volevo annientarmi, la mia vita non aveva più senso. Se fossi stato solo, ora non ci sarei. Ho perso le amicizie, mi consideravano un “idiota”, soffrivo molto di questa situazione.

Il primo colloquio con la logopedista è servito per chiarire ai miei fami­liari quale fosse la mia condizione. Poi abbiamo iniziato a conoscerci. Al quarto giorno ha affrontato il nocciolo del problema, lo ero disperato, fisicamente mi presentavo “disperato”, trascurato nel vestire, barba incol­ta, capelli lunghi, non mi volevo più bene. Mi ha messo al muro: se avevo accettato di vivere, dovevo farlo nel modo migliore, pensando in positi­vo, non lasciandomi andare alla deriva. Ho incassato, da quel momento ho cercato di reagire positivamente. Sono trascorse dieci primavere da quando mi sono trovato improvvisamente incapace a trasmettere i miei pensieri. È giunta l’ora di riprendere a raccontare i miei ricordi che con molta cura avevo iniziato a raccogliere in un album di fotografie. Lì c’è la mia storia che avevo forzatamente dovuto interrompere.

La mia infanzia l’ho trascorsa a Villanova, paese vicino a Zignano, nella tenuta dei conti Marzotto. La mia famiglia si era trasferita lì dal Piemonte, in guanto mio padre aveva intrapreso lo stesso lavoro di suo padre che a sua volta aveva seguito il nonno. Tutti lavoravano nel settore del cotone. Così ricordo la grande casa col grande giardino dove io scorazzavo libe­ro con tutti i miei amici. Vicino alla casa si trovava la fabbrica dove lavo­rava il papà come direttore dei lavori. Dalla parte di mia madre invece c’è la storia di una rinomata officina meccanica, fondata da suo padre, che ha subito vari alti e bassi in quel di Torino. Mio nonno ha sofferto di que­ste situazioni ma ha lottato sempre con estrema volontà. Era una famiglia molto agiata, infatti ho molte fotografie che ritraggono la nonna e il nonno con mia madre e suo fratello nella loro bella villa, in vacanza al mare o in montagna. Mia mamma ha trascorso una bella infanzia non­ostante il ricordo angoscioso di quando suo padre, mio nonno, era stato sul punto di togliersi la vita, per via di un improvviso fallimento della ditta. Mi hanno raccontato della strana sensazione che ha distolto il nonno dal suo gesto premeditato: alcune “voci” lo avevano disturbato, fatto tornare alla realtà e così gli avevano impedito di sopprimersi. Per me bambino questo era molto misterioso e spesso pensavo a tutto ciò facendo galop­pare la mia fantasia.
L’ambiente che frequentavo era molto circoscritto perché la mia fami­glia, come dicevo, viveva nel villaggio Marzotto e lì c’erano delle regole che facevano in modo che la gente così detta “bene” si frequentasse tra­lasciando altre amicizie possibili con i vicini, che erano i contadini che lavoravano nell’azienda agricola. Ricordo le reti che facevano da confine tra il territorio dei più abbienti, in cui si trovavano la piscina, i campi da tennis e così via, e la campagna in cui scorazzavano i figli dei contadini. Questi si soffermavano dietro la rete ad osservare noi che godevamo dei nostri privilegi. Ciò mi procurava molta tristezza, mi rendevo conto di que­sto distacco e la mia reazione era quella di avvicinarmi a loro come pote­vo; ricordo il giorno in cui mi venne il desiderio di cercare amicizia con un bimbo che si trovava al di là della rete e che guardava il mio panino con la salsiccia. C’era una grigliata in atto, io ho teso il panino attraverso la rete al mio “possibile” amico. Ma questi si è rifiutato di accettarlo con una fierezza che non dimenticherò mai. Per me questa è stata scuola di vita che mi ha fatto pensare sulla giustizia, sulla lealtà, sulla ipocrisia e sui rapporti che si instaurano. Mi ha stimolato a volere un mondo più buono, più giusto, dove tutti ci si voglia più bene e si viva aiutandosi l’un l’altro. Ricordo tutti i pettegolezzi tra le varie famiglie, il modo falso di rapportar­si tra loro, mantenendo sempre il sorriso e le buone maniere!

Frequentavo la scuola in paese e lì eravamo insieme, pochi bambini del villaggio privilegiato e tanti bambini contadini. Eravamo visti come diversi, tutti i miei sforzi per farmi benvolere cadevano nel vuoto, ne sof­frivo molto. Cercavo di dire ai miei amici fortunati di rendersi conto di ciò che avevamo e di come avremmo potuto spartire con gli altri il nostro benessere, ma essi non davano nessuna importanza alle mie parole, vivevano nel loro “grasso” senza pensare a niente se non a soddisfare i loro desideri. Le amicizie che sono continuate da adulti mostrano ancora que­sta indifferenza per quella che adesso penso si possa chiamare “la politi­ca” nel senso più bello, nel voler capire come si vive, nel voler cercare di far migliorare la condizione umana, nel rispetto della natura e degli altri animali.

Non poter parlare velocemente come una volta, mi impedisce di par­tecipare a discussioni vivaci di cui io ero fautore, questo è un sogno ormai, ma importante è comunque poterne parlare con chi è disposto ad avere tempo per sentirmi. Le idee per me sono il sale dell’uomo, non si può fare a meno di esse! Se non hai idee non puoi vivere, lo le ho, per­ciò sono ancora vivo e desidero essere ascoltato per poter apprezzare sempre di più la vita.

Ritornando ai ricordi dell’infanzia mi vengono in mente tutti i profumi, gli odori, i sapori di tante situazioni vissute che spesso riaffiorano nella mia mente. Le cene che non avevano mai un orario fisso, perché il papà rincasava tardi e noi, seduti intorno alla tavola imbandita con la zuppiera fumante che emanava profumi allettanti, dovevamo pazientemente attendere il suo ritorno, lo e mia sorella, maggiore di ben sette anni, ci guardavamo con occhiate di intesa nella speranza che si aprisse la porta e finalmente il papà si sedesse a tavola con noi. Avevamo l’acquolina in bocca, ma sapevamo che questa era una regola che non poteva essere cambiata. Si ripeteva una scena buffa quando veniva proposta la mine­stra di riso e patate, io e mia sorella misuravamo i chicchi che mano a mano, con il passare del tempo, aumentavano e diventavano lunghi più del loro doppio… Poi finalmente mangiavamo, ascoltando in sottofondo le arrabbiature che il papà aveva preso nella giornata, durante il lavoro. Raccontava alla mamma tutto e così si poteva sfogare, mentre noi ci rim­pinzavamo soddisfatti. Di noi si doveva occupare la mamma, con il papà passavamo poco tempo assieme, non avevamo confidenza con lui, ma ci sentivamo amati e ricambiavamo l’affetto. Con la mamma era un’altra cosa, lei ci era sempre accanto. Veniva aiutata nei lavori domestici da qualche ragazza-contadina e tra queste ricordo con particolare tenerezza la Olga che mi portava spesso nella sua casa colonica dove c’era la gran­de cucina con il tavolo lungo lungo di legno, con il focolare, dove tutti si riunivano a mangiare, dopo il duro lavoro nei campi. Mi piaceva andare nella stalla, dove accarezzavo il muso delle vacche, mi piacevano molto gli animali domestici e da cortile e lì potevo vederli tutti; e quell’odore di foglie di gelso e quel rumore dei bachi ingordi che si nutrivano in quel­l’aria calda umida sui grandi tralicci di canne. Sfioravo il baco con le mie piccole dita e lo sentivo così tenero e caldo! E poi quei bellissimi bozzoli color oro! Era un miracolo vedere tutte quelle mutazioni.

Frequentavo la seconda elementare e a Natale, sotto l’albero, Gesù Bambino mi ha fatto trovare una bellissima bicicletta tutta per me. Così andavo a scuola pedalando allegramente. Ero solito incontrare per stra­da una persona sordomuta che lavorava in fabbrica dal papà. Mi sem­brava triste e solo. Un giorno l’ho visto in compagnia di un altro sordomuto, più giovane di lui. Mi sono molto sorpreso nel vedere come erano entrambi capaci di comunicare tra loro, erano molto allegri, muovevano le mani velocemente nell’usare il loro linguaggio. Emettevano suoni senza significato per me, ma capivo che stavano bene insieme. Da quel giorno li vedevo sempre recarsi al lavoro discutendo concitatamente. Pur­troppo però è successa una grave disgrazia in fabbrica. Quattro operai trasportavano una grande vasca di ferro, adibita al lavaggio del cotone, ad un certo punto uno di loro è inciampato e ha perso l’equilibrio, il suo grido di allarme ha fatto mollare agli altri compagni la presa e ha per­messo loro di tirarsi in salvo, ma purtroppo il quarto compagno è rimasto colpito dalla pesante vasca perché si trattava del ragazzo sordo-muto che, non captando le urla dei compagni, ha continuato a procedere con il suo carico, ignaro che stava per essere travolto e ucciso. Questa notizia mi fece stare molto male e quando, ogni mattina, incrociavo il sordomuto, di nuovo solo, lo vedevo che continuava a gesticolare molto, sembrava parlasse all’amico che non c’era più. Forse era un suo modo per ricor­darlo.

Da piccoli andavamo a Jesolo, al mare, in una pensione data in gestione alle suore dai Marzotto. Con la mamma ci godevamo la vacan­za, il papà veniva a trovarci alla domenica. Quando ho iniziato le scuole elementari il papà ha finalmente preso l’abitudine di fruire delle ferie. La nostra meta era Pinerolo, dove abitavano la zia Pina e lo zio Alfredo con i cugini Emilio e Mariolina. Il viaggio da Villanova era lunghissimo; il papà meticolosamente segnava sulla cartina topografica ogni tappa dove dovevamo riposarci un po’, sgranchire le gambe e rifocillarci. Temerario, manteneva costante la corsa della gloriosa Topolino A, presa a noleggio, sui 50 km orari. La partenza era programmata per le 7.30 del mattino. I miei genitori si alzavano prestissimo quel giorno, preparavano tutti i bagagli e, con cura, sistemavano sul portapacchi uno strano involucro contenente il prezioso baccalà-ragno da regalare allo zio che lo attende­va con l’acquolina in bocca. La prima volta che abbiamo fatto questo viaggio, ricordo come mi avessero colpito i grandi palazzi di Mestre, la strada molto ampia su cui però passavano rare automobili. Ogni auto che s’incrociava veniva guardata con curiosità.

Non dimenticherò mai quel giorno in cui, a metà viaggio verso Pine­rolo, il papà si accorse che la spia dell’olio si era accesa. Fermatosi, è sceso dall’auto, ha lasciato la mamma con noi due figli lì, al bordo della strada, ed è partito con passo veloce alla ricerca di un distributore, per rifornirsi di olio. Abbiamo atteso pazientemente il suo ritorno. La tensione aumentava col passare del tempo, quando ho gridato: “eccolo, eccolo!”. Sono stato il primo ad avvistarlo. Sembrava un cowboy in un film western! Il caldo dell’asfalto lo avvolgeva e si vedeva la sua figura in lon­tananza che tremolava. Man mano che si avvicinava, appariva ben sta­gliato nel cielo con in mano una lattina d’olio già aperta, pronta per l’uso, con la camicia sbottonata e l’altra mano che teneva la giacca appoggia­ta alla spalla. Era sudato e affaticato dalla lunghissima camminata. Noi eravamo felici di vederlo arrivare, ma non sapevamo che ancora ci aspet­tava una scena che, a raccontarla ora è divertente, ma quando l’abbia­mo vissuta c’era molta tensione… Il problema era, a quel punto, di capi­re innanzitutto dove si trovasse il contenitore dell’olio. Poi, trovatolo a fatica, abbiamo dovuto assistere il papà che col braccio alto mirava nel buchino dove l’olio doveva entrare! Un’impresa notevole, tanto più che tirava un forte vento e abbiamo seguito le istruzioni del papà che ci ha sistemati in tondo per ripararlo dalle folate. Mezzo olio è finito sull’asfalto, ma siamo riusciti a ripartire: che avventura! Ricordo tutti gli “apprezza­menti” rivolti da papà alla Fiat che aveva proprio ben progettato questa vettura!!!

Un altro ricordo della mia prima infanzia è quello dell’incontro col nonno paterno, uomo alto un metro e ottanta, di costituzione robusta, un po’ pelato, con i baffi, dal portamento altero. Avevo circa quattro anni e stavo giocando con due miei amici, più piccolini di me, nel giardino di casa con le automobiline. Improvvisamente si è avvicinato questo signo­re con una valigetta, vestito di grigio, il panciotto dove s’intravedeva l’o­rologio d’oro a cipolla tenuto nel taschino, per chiedermi dove abitava la mia famiglia. Sono rimasto a bocca aperta perché ho riconosciuto il nonno, spesso guardato nelle foto dell’album di famiglia. Lui natural­mente non mi ha riconosciuto, gli ho indicato con la mano la porta di casa senza articolare parole, era troppa l’emozione. Dopo l’incontro con la mamma, sono stato chiamato per salutarlo e lui mi ha detto: “Ho un regalo per te!”, e mi ha dato un dolcetto, una mela cotogna. Ricordo di essere rimasto un po’ deluso, immaginavo un giocattolo, non certamen­te una “cotognata”. Poi sono rimasto in casa col nonno mentre la mamma era a fare la spesa ed è giunto il suo amico in bicicletta. Aveva saputo del suo arrivo e non vedevano l’ora di riabbracciarsi. Avevano fatto la guerra insieme sul Carso. Tanti ricordi li accomunavano. Era stato proprio questo amico del nonno, che lavorava nella fabbrica dei Marzot-to, a trovare il lavoro al papà, qui a Villanova. Così ho dovuto indicare al nonno dove tenevamo del vino e lui ha preso tutta la cassetta contenen­te quartini di vino imbottigliati e l’ha messa sul tavolo. Sono rimasto ad ascoltare ciò che si raccontavano e a guardare come il nonno era solerte a riempire i bicchieri quando rimanevano vuoti. È rimasto nostro ospite per un po’ di giorni e ricordo la scoperta che fece la domenica: eravamo entrati in chiesa per la Messa. Lui fu subito attratto dai dipinti della volta, si era molto meravigliato perché gli erano sembrati familiari, già visti. Teneva la testa in alto e guardava, poi si è reso conto che proprio li cono­sceva benissimo, in ogni loro particolare. Quale la spiegazione? Ed ecco che nella sua mente è riapparso ciò che aveva vissuto: ferito da uno scop­pio di una bomba, mentre si trovava al fronte, in una baracca, era rima­sto miracolosamente in vita, perché la porta della baracca lo aveva schiac­ciato ma, nel contempo, l’aveva protetto dalle schegge che, purtroppo per gli altri compagni, erano state causa di morte. Da lì, ferito, era stato trasportato nelle retrovie ed ecco che era proprio questa la chiesa che, al tempo della guerra, era stata adibita ad ospedale militare, in cui lui era stato portato per essere curato. Il paese è stato fondato negli anni suc­cessivi, dopo le bonifiche; la chiesa era in mezzo alla campagna tra gli acquitrini, nel regno delle zanzare giganti contro le quali il nonno dove­va lottare e disteso nella sua branda vedeva questi affreschi. Quanto è piccolo il mondo, verrebbe da pensare. Per lui è stata una grande emo­zione. Ho saputo che il suo ferimento era avvenuto mentre nella baracca si era messo ad appendere sul filo le foto ad asciugare. Era appassionato di fotografia e sapeva sviluppare e stampare. In trincea era addetto ai lan­cia-fiamme. Aveva tanti ricordi di quei terribili momenti! Con la sua mac­china fotografica ne fissava le immagini, peccato che la bomba spazzò via tutto!

Avevo circa dieci anni quando insieme ai miei inseparabili amici, San­dro e Paolo, abbiamo avuto un’avventura eccezionale. Valerio, il quarto amico della banda, era stato accuratamente messo da parte perché lui era quello che non sapeva tacere, parlava troppo, non riusciva a mante­nere un segreto. Avrebbe dovuto essere così: un segreto vissuto da noi tre. Invece abbiamo commesso un errore che ci ha scoperti! La macchina Fiat 600, color verde mela, della mamma di Sandro era lì, momentaneamente a nostra disposizione, parcheggiata fuori casa. Il fratello maggiore di Sandro, Massimo, di sedici anni, sarebbe rientrato più tardi, il piccolo Mauro era via con la mamma in paese. Potevamo fare una veloce sco­razzata con l’auto, lo sapevo guidare perché il papà mi aveva fin da pic­colo tenuto sulle ginocchia per mostrarmi come si guida. Sandro aveva infilato una monetina nel cruscotto al posto della chiave, mentre io, tira­ta l’aria, mettevo in azione il motorino d’accensione. Nel sedile posterio­re c’era Paolo, in piedi, di vedetta, che doveva indicarmi la strada, in quanto, per manovrare i pedali, finivo basso basso e non vedevo fuori! Così ci siamo diretti verso i campi, incominciava a piovere. Per girare l’au­to ho leggermente sbandato sul fango, Sandro si è spaventato e ha fatto cadere la monetina, spegnendo il motore. Panico: una ruota slittava e impediva la partenza. Le lacrime e la disperazione di Sandro non mi aiu­tavano, continuavo a insistere per uscire da quella trappola. Finalmente ce l’ho fatta e ho ricevuto un applauso sentito e acclamazioni di “bravo, bravo”. Siamo ritornati al posto di partenza, ma l’auto si era tutta sporca­ta di fango, il tempo era contro di noi, ci siamo precipitati a pulire la vet­tura per non lasciare tracce. Poi di corsa Paolo ed io siamo andati via, convinti che tutto fosse in regola. Purtroppo l’indomani Sandro ci ha rac­contato che sua mamma aveva subito scoperto tutto: le gomme dell’au­to erano rimaste piene di fango… Una nostra svista che è costata duri rimproveri a Sandro, che però non ci ha traditi! Si è preso tutta la colpa, senza far uscire i nomi dei suoi complici…proprio un vero amico!

Mi fa piacere ricordare come avevamo vinto la banda dei “Piazza” con una mia invenzione, il “boomerang nostrano”. Ora lo descrivo: in cima a un bastone di sambuco, che è molto flessibile ed elastico, veniva appog­giata una palla di argilla che, lanciata con tutta la forza possibile, finiva addosso ai nemici, imbrattandoli. La sorpresa era stata grande e la fuga velocissima. Valerio era nascosto dietro una siepe per avvertire quando loro fossero avanzati. Noi tre li attendevamo con le armi cariche apposta­ti sotto la tettoia della vecchia lavanderia abbandonata. L’indomani, però, loro avevano copiato la nostra arma e Sandro si è beccato una palla d’ar­gilla in piena faccia. E’ scappato a casa piangente. Quanto ci si divertiva però!

Tanti sono i ricordi del mio vissuto, ma un giorno veramente indimen­ticabile è stato quello del terremoto del 1976. Abitavamo a Feletto, in una palazzina al primo piano. I nostri due figli avevano sei e cinque anni e già dormivano nei loro lettini, lo guardavo la tv, mentre Luciana lavava i piat­ti. Sentito il boato, siamo usciti sulla terrazza, poi, presi i bimbi, giù per la scale di corsa. Ricordo il panico del vicino che era rimasto immobile, non reagiva, con la mamma anziana da aiutare; e l’altra dirimpettaia che era scattata via come una freccia, dimenticando però di avere lasciato in camera i due bimbi addormentati. Giù in strada la gente ha incomincia­to a chiedersi dove fosse stato l’epicentro del terremoto. Un vicino di casa ha telefonato ai suoi genitori che abitavano a Majano. Lì riferivano che erano avvenuti molti crolli; non si riusciva ad avere ulteriori notizie. Abbia­mo deciso di andare a vedere, siamo partiti con due auto, loro avanti in quattro persone, e io nell’altra auto con il guidatore. Ci hanno distanzia­ti, perciò abbiamo dovuto procedere da soli. Le strade erano tutte scon­nesse. Abbiamo dovuto imboccare una strada bianca, in mezzo ai campi. Ci siamo trovati davanti a una scena che non dimenticherò mai: una casa contadina completamente rasa al suolo e il capo famiglia che continuava a dire: “Che fortuna! Che fortuna! Siamo tutti vivi!”. La moglie stava sedu­ta su un materassino, sotto il grande fico, con in grembo i suoi piccoli figli addormentati. Verso mattina Majano ci è apparsa con tutte le sue rovine. L’amico, col quale ero arrivato fin lì, si è accasciato sui resti di un muretto di cinta e piangendo esclamava: “Distrutto, distrutto tutto il Friuli!”.

Luca, mio figlio, ha quindici anni quando decidiamo di trascorrere una vacanza insieme. Itaca è la nostra meta. Prendiamo in affitto una casetta in cima ad una collina: cielo blu e mare a riempire gli occhi. Una gatta con i micetti e un gatto che, un po’ per volta, si fideranno delle nostre carezze. Sono stati giorni felici, indimenticabili! Luciana e mia figlia Cri­stiana erano rimaste a casa perché ospitavano gli amici finlandesi cono­sciuti per motivi di studio da Cristiana.

Andavamo a pesca subacquea in apnea. Ho insegnato a Luca a destreggiarsi in questa disciplina. Fin da piccolo avevo la passione di esplorare il fondo marino. Ricordo un bellissimo passaggio tra le rocce, molto stretto, con alcune diramazioni e sbucando in una di queste, aven­do avvistato un grosso sarago, l’ho lasciato in pasto a Luca che si è diver­tito a catturarlo. Oltre a questi meandri avevamo scoperto un lembo di spiaggia, era un paesaggio incantevole: cielo, rocce, sabbia, mare!

Spesso con il gommone visitavamo le piccole isole intorno a Itaca, face­vamo bellissime nuotate. Un giorno il tempo è cambiato improvvisamen­te, ha incominciato a piovere, si è alzato un forte vento. Noi due sul gom­mone saltavamo sulle onde, Luca si teneva aggrappato alle corde, la nostra andatura aumentava di velocità in quanto avevamo il vento in poppa, a favore. E via come due pazzi felici tra le onde.

Ho desiderato raccontare alcuni miei ricordi per dimostrare a me stes­so che sono in grado di comunicare di nuovo, certamente ho bisogno di più tempo e di qualcuno che abbia il piacere di ascoltarmi.

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